I numerosi mali di cui soffre la nostra civiltà sono di una tale gravità da generare sconforto e considerare inevitabile la nostra decadenza. Io penso però che occorra reagire a questa rassegnazione interrogandosi sulla possibile terapia. Ne esiste una? Riflettendovi a lungo, sono giunto alla conclusione che essa possa scaturire solo da una capillare educazione finalizzata a valorizzare la nostra essenza specifica di esseri pensanti. Questo quindi occorre fare: riprogrammare totalmente l’offerta formativa della nostra società (dalle scuole materne all’università) in funzione “educativa”. Oggi invece le scuole danno spesso ai ragazzi cose di cui essi non hanno bisogno e trascurano gli strumenti vitali per la conoscenza di sé di cui hanno estrema necessità: è come se a un assetato nel deserto invece dell’acqua si desse una bussola. Ma qual è questa nostra “essenza specifica” su cui concentrare l’educazione?
Tutti ricordiamo questi versi di Dante: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Inferno, XXVI, 118-120). La nostra specifica essenza è l’armonia di conoscenza e di virtù. La conoscenza è forza dell’intelligenza orientata all’esattezza e alla verità; la virtù è forza della volontà orientata al bene e alla giustizia. La conoscenza produce operatività e progresso, la virtù un uso responsabile della conoscenza. Anzi, io penso che la si possa denominare proprio così: “responsabilità”, termine oggi più efficace di virtù. Conoscenza e responsabilità, dunque: ecco la nostra essenza specifica su cui far ruotare l’offerta formativa e generare vigili coscienze morali in grado di non soccombere di fronte ai mali del tempo e salvare “l’umano nell’uomo” (come avrebbe detto Vasilij Grossman)La conoscenza procede dall’intelletto, la responsabilità dalla volontà. Intelletto e volontà sono facoltà strutturali del nostro essere. Ne abbiamo una terza, il sentimento, la cui produzione si chiama amore e amicizia. L’armonia tra le nostre tre facoltà di intelletto, volontà e sentimento è essenziale, e in sua assenza si hanno squilibri e malessere. Il prevalere dell’intelletto produce intellettualismo, descritto da Tagore dicendo che “una mente tutta logica è un coltello tutto lama: fa sanguinare la mano che l’adopera”. Il prevalere della volontà produce volontarismo, sforzo cieco e alla fine dannoso, mentre il prevalere del sentimento produce sentimentalismo, esagerazione poco avveduta e scarsamente consapevole dell’affettività. Occorre quindi saper comporre in armonia le nostre tre facoltà strutturali, ma esiste un’educazione al riguardo?
Io temo che oggi le nostre scuole si curino solo della conoscenza e trascurino l’educazione della responsabilità e del sentimento. Il risultato è poco incoraggiante: una scarsa coscienza etica e un sentimento spesso irrazionale e tremendamente instabile. La conseguenza complessiva è che il nostro tempo possiede una conoscenza assai vasta come mai prima nella storia, ma esibisce ben poca responsabilità sotto forma di senso etico e di cura della “cosa pubblica” (che in latino si dice res publica, da cui repubblica). Di responsabilità però ce n’è urgente bisogno, più di altre epoche, viste le potenzialità tecnologiche che scaturiscono dalla conoscenza. La domanda decisiva quindi è: come incrementare il senso di responsabilità? Si tratta di una domanda dalla forte valenza politica, perché la “res publica” vive del senso di responsabilità dei suoi cittadini.
Si può rispondere in modo assai diverso evocando soluzioni politiche (la rivoluzione o viceversa la restaurazione), religiose (la conversione), tecnologiche (l’avvento del postumano e l’addomesticazione della libertà) e altre ancora. Io rispondo indicando l’educazione sistematica alla responsabilità. Come? Tramite un programma di educazione etica in cui la conoscenza sia sempre collegata con la responsabilità: “virtute e canoscenza”, appunto. In concreto: più filosofia (non storia della filosofia, ma filosofia, cioè non tanto autori, quanto temi) e più etica. Quale etica? L’etica universale, quella comune a tutte le grandi filosofie e spiritualità del passato, così bene illustrata dal progetto Weltethos (“etica mondiale”) inaugurato dal teologo svizzero Hans Küng e portato avanti in molti paesi europei dalla relativa fondazione (cfr. weltethos.org).
E questo già a partire dalle scuole dell’infanzia fino all’università per tutte le facoltà, perché tutti hanno bisogno di una permanente e specifica formazione etica. Senza etica infatti non si può veramente essere bravi medici, avvocati, dirigenti d’impresa o fisici atomici. Dalla scuola materna all’università la formazione etica deve costituire il filo rosso che ogni anno accompagna il cammino formativo. È questa, a mio avviso, la condizione indispensabile se vogliamo salvarci dai mali che incombono sul nostro futuro.
Oggi però si fa esattamente il contrario: si dispensa solo istruzione (la bussola) e si trascura del tutto l’educazione (l’acqua). Qual è la differenza tra istruzione ed educazione? Per coglierla basta considerare i due verbi. Istruire viene dal latino “instruere” che significa “preparare per”, formato dalla preposizione “in” e dal verbo “struere” che significa “costruire”, da cui strumento, struttura, costrutto, costruzione, industria. Il verbo educare viene dal latino educere, che significa “condurre fuori”, formato dalla preposizione “e” (fuori da) e da ducere, “condurre”. L’istruzione è più facile dell’educazione perché presuppone soggetti equiparati a scatole vuote da riempire, mentre l’educazione presuppone che coloro ai quali ci si rivolge abbiano “qualcosa” dentro di sé, un centro che va svegliato e portato alla luce, per cui l’azione educativa equivale a una specie di risveglio. Viene naturale pensare a Socrate e alla sua pedagogia detta “maieutica”, l’arte della levatrice, il mestiere della madre Fenarete: come nella donna gravida vi è un bambino da portare alla luce, così in ognuno di noi vi è una dimensione da risvegliare, e in questo consiste propriamente l’educazione. La differenza quindi è notevole: ricevendo istruzione si diventa uno strumento al servizio di una struttura (ospedale, azienda, laboratorio eccetera); ricevendo educazione si diventa se stessi. E così si compie l’antico precetto delfico “conosci te stesso”, ottenendo l’arte del vivere e la conseguente saggezza operativa.
Oggi però il concetto di educazione è ridotto alle buone maniere, e così la parte più importante di un essere umano, cioè la coscienza morale, rimane priva di cura. E non è sufficiente la sola educazione civica, perché noi, prima di essere cittadini, siamo essere liberi e pensanti e quindi prima di educare la coscienza civile dobbiamo educare la coscienza morale. È infatti qui che si dà l’identità più autentica e il valore di un essere umano: uno può nascere più o meno dotato di intelligenza, di sensibilità estetica, di ricchezza o di qualunque altra cosa: non è né merito né demerito suo. Il merito si ottiene con l’uso responsabile delle qualità che la natura ci ha dato. E quando quest’uso è finalizzato all’interesse della “res publica” o “bene comune” si ha l’etica.
Perché vi sia etica vi deve quindi essere la percezione di qualcosa di più importante del proprio personale interesse: come la voce del daimonion che Socrate sentiva dentro di sé e che gli ordinava cosa non fare; come la voce divina che Mosè sul Sinai sentì dentro di sé e che lo portò a scrivere le tavole della legge con i dieci comandamenti; come l’imperativo categorico di Kant che recita: “Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua sia nell’altrui persona, sempre come fine e mai soltanto come mezzo”.
Consapevole già nel 1979 della crisi ecologica incombente che ora è sotto gli occhi di tutti, Hans Jonas, filosofo ebreo di formazione tedesca, ritrascrisse l’imperativo categorico kantiano in termini di “principio responsabilità” mediante questa formula sintetica: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. È questa infatti la posta in gioco: un’autentica vita umana. Nessuno ce la garantisce, né tanto meno ce la regala: occorre lavorare per meritarsela. E il lavoro al riguardo si chiama educazione. In particolare, educazione etica. Penso sia l’ultima chiamata per un’autentica vita umana sulla terra.Vito Mancuso
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